Adesso anche il vento ha una casa

Ce l’ha una casa il vento? Credo di sì, da qualche giorno. “Insieme agli amici più cari abbiamo deciso di mettere a disposizione dell’Archivio Storico dell’AS Roma parte del materiale storico del Commando Ultrà Curva Sud, a cominciare dal primo striscione datato 1977. La decisione è stata presa dopo averne verificato gli standard di serietà ed affidabilità con lo scopo di conservare e preservare oggetti che altrimenti andrebbero distrutti. Con questo gesto, sofferto ma carico di emozione, vorremmo donare a tutti i tifosi della Roma la nostra storia e i nostri ricordi. Siamo nati e abbiamo vissuto con l’unico scopo di essere al servizio della squadra e della sua gente. Se nei nostri lunghi anni di militanza abbiamo sempre considerato il Commando un patrimonio di tutti, da oggi lo sarà per sempre. Forza Roma“.

Poche righe per comunicare una cosa enorme: il Cucs ha donato il suo primo striscione storico – cioè la sua firma, il suo spid dell’anima, la sua faccia, il suo cuore, i suoi graffi, gli occhi – alla Roma. Credo sia la cosa più romantica della storia romanista. Per un gruppo lo striscione rappresenta la vita stessa, darlo alla Roma è chiudere un cerchio, un compiersi da parte di chi alla Roma ha dato sempre tutto. “Commando Ultrà Curva Sud”, 42 metri di storia esposti per la prima volta il 9 gennaio 1977 in un Roma-Sampdoria finito 3-0 per forza e per amore con una doppietta – come la doppia b di Dibba – di Agostino Di Bartolomei. Ventidue anni in Curva Sud e per sempre nel cuore. Spazio 1999. Poi altri 22 anni: oggi il Commando Ultrà Curva Sud è idealmente “messo a disposizione” e concretamente conservato in un Archivio il cui lavoro di cura, premura e pazienza è tanto sconosciuto quanto prezioso. Sono le cose belle della Roma. Le cose dietro le quinte. Quelle che si fanno per gli altri e che non si devono subito vedere. Forse mai. Come una coreografia. Come una poesia. Ci sono magliette, lettere, foto, oggetti, figurine, libri, quaderni, le nostre cose care perdute e recuperate, mantenute, scoperte, conservate, preservate, tramandate. È il nostro dna e per “gli amici più cari” vita vera, vita profondamente vita. Per tante persone quello striscione non è stoffa, ma sangue. Rappresenta un pezzo di vita o ciò che restava di quella. Ci sono persone che si sono separate dal ricordo più bello del loro marito o del loro padre dando questa “cosa” alla Roma. Questo è. Nient’altro che questo è.

Ce l’avete una cosa cara per voi? Le cose care, quelle che cerchi di mettere a casa nel posto più giusto, dove sai che non possono perdersi: un braccialetto, una bambola, una lettera, un fiore secco, il quadretto di lei, la fede, Goldrake, i trasferelli, il primo album delle figurine, l’ecografia di tuo figlio, i guanti di Hiroshi: quello che per te è importante. Le cose care non sono cose, e smettono di esserlo definitivamente nel momento stesso in cui riesci a separartene senza perderne il profumo, il senso, il ricordo. Un po’ come un figlio. Il compito di un genitore è quello paradossale di allontanarlo da sé: già la nascita è un venir fuori e poi si tratta di accompagnarlo fino a che potrà camminare solo (senza mai smettere un attimo di volerselo abbracciare come il primo giorno).

Questa donazione, questa “messa a disposizione” è un paradosso perché nel momento in cui chi ha fatto il Commando lascia andare per sempre il Commando lo riporta alla madre: la Roma. Questa è l’ultima coreografia, invisibile, l’ultima paradossale trasferta perché è verso casa. Quello striscione ha tenuto insieme generazioni e ancora tiene insieme chi sta qui e chi è andato dall’altra parte con la Roma nel cuore. È sempre stato appeso fra cielo e terra, e invece di seppellirlo in uno scantinato, verrà messo in un luogo vivo e curato. Amato. Il luogo dell’anima che dà senso a tutto questo per noi: la Roma. È come l’acqua che va al mare, è come il vento che va… al vento. Roberto Stracca scrisse: «Il Commando Ultrà è una forza della natura, è come il vento… E chi può fermare il vento?». Nemmeno il tempo.

Io penso che ci sia stato un tempo fatto di grandi persone, di grandi sentimenti e di grandi sospiri. E di sogni talmente ingenui da risultare veri. Di cuori folli. Io penso a Geppo che era un poeta. Penso a tutti quelli che non ci sono più e a tutti quelli che ci sono stati che avevano una grande passione nel cuore e meritavano di raccontarla… O che venga ancora raccontata. Penso ai ragazzi del Commando Ultrà che oggi sono uomini e donne, padri e madri, e che io mi spizzavo mica solo per 90′, ma da quando entravo allo stadio. Nulla di tutto questo andrà perduto. Nulla è perduto. Personalmente da quando scrivo di Roma – una vita – niente mi potrà ripagare più della commozione che ho visto in loro quando hanno dato – ancora una volta, ma stavolta per sempre – tutto alla Roma. Nei loro abbracci c’erano i compagni e gli amori scomparsi, c’erano i tempi di Agostino e quelli di Totti, quelli di Giannini e di Birigozzi. Quell’ipnotico e profumato color arancio che avevamo negli occhi al sole la domenica all’Olimpico, che spiegava veramente il significato di essere e sentirsi giallorossi. Tutte le coreografie fatte e quelle non realizzate, le trasferte in ogni parte e le preghiere davanti alla radio nelle camerette. Le voci svociate. C’erano loro: quelli che restavo a guardare cercando il coraggio per imitarli. Stavolta l’esempio non è più solo riuscire a vincere la timidezza e vendere i libri davanti alla scuola, ma scendere di qualche fila in più per l’ultima coreografia, continuare a scendere di seggiolino in seggiolino fino a poter veramente considerare tuo quello striscione. Stavolta l’esempio è lo stesso: amare. Non c’è niente di più ribelle, di ultras, anzi di ultrà, che amare. «Siamo nati e abbiamo vissuto con l’unico scopo di essere al servizio della squadra e della sua gente. Se nei nostri lunghi anni di militanza abbiamo sempre considerato il Commando un patrimonio di tutti, da oggi lo sarà per sempre. Forza Roma». C’è stato un tempo in cui il popolo è stato al potere e con quel potere ha detto ti amo. Ce n’è stato un altro in cui con quell’amore ha soprattutto resistito. Ora è il tempo in cui quell’amore è nel vento.

Uscito su “Il Romanista” del 17 dicembre 2021

Roma Kaput Mundi: il 2-0 in Coppa UEFA con il Colonia

“Vigilia, amici miei, è dir poco. Io non so quel che succederà tra poco, né ci voglio pensare. Io, tifoso romanista (…) so soltanto che Shakespeare era grandissimo”.

Perché – avrebbe scritto poche righe più in là quell’8 dicembre su «Il Messaggero» Fulvio Stinchelli – Shakespeare è stato il poeta che ha descritto la notte della vigilia per antonomasia, quella delle ansie, delle incertezze, delle paure di Riccardo III prima del giorno della verità. Non c’è mai stata una vigilia come Roma-Colonia perché fino a quel momento non c’era mai stata una partita come Roma-Colonia. Non era solo il ritorno degli ottavi di finale di Coppa UEFA, si trattava di definire un’altra volta la Roma. Di conferire – termine cavalleresco che dà meglio l’idea del gesto da compiere – a quella Roma romana, romanista, capitale e finalmente davvero Capoccia, una dimensione internazionale. Un rango europeo. Il Colonia era la Germania, vestiva pure di bianco come i bianchi battuti in Spagna; il Colonia era la Germania di Schumacher, Bonhof, Littbarski, Allofs, e la Roma era l’Italia. Era ancora il 1982, Roma-Colonia era come fosse una riedizione di quella finale. In tribuna c’erano Bearzot, Berlinguer, Agnelli, persino tutta la Lazio (compreso Chinaglia) a osservare lo spettacolo che era la Roma. Sin dal momento del sorteggio la sfida era apparsa più grande dei suoi stessi orizzonti di andata e ritorno. All’andata la Roma aveva perso 1-0 ma aveva giocato bene, era tornata con qualche rimpianto ma con più speranze, e ancor più promesse. Al ritorno, il senso era che non ci sarebbe stato ritorno per noi, in un senso o nell’altro: Roma Caput Mundi o Roma Kaput Mundi. E Roma, quell’8 dicembre dell’Immacolata, si presenta bellissima all’appuntamento. D’una bellezza da star male. Lo stadio pieno, l’Olimpico gonfio, lo striscione bianco, immacolato con scritta rossa «non passa lo straniero» e la Sud che mormora:«Falcao, Falcao».
Mentre Stinchelli su «Il Messaggero» racconta la vigilia di Riccardo III e di Shakespeare, i ragazzi della Curva Sud scrivono e divulgano questo:
“(…) Ognuno deve fare l’impossibile perché la partita si trasformi in una trionfale festa: sciarpe, bandiere, stendardi, non un solo oggetto giallorosso deve restare a casa. Andrà bene anche un tricolore. Dobbiamo far vedere il nostro entusiasmo a tutta Italia e a quell’Europa che sarà collegata all’Olimpico attraverso la radio e la tv. Non cantate prima, ma solo durante la partita, per non perdere forza. Noi daremo il “la” alla conquista del Vecchio Continente”.


Vigilia, amici miei, è dir poco… Io, tifoso romanista, so soltanto che è stata una delle giornate più belle della nostra vita. Ricordo tutto. Il tempo brutto, che però non metteva tristezza. Era più la lucedella Torcida: tutta Roma aveva passato la stessa nottata di Stinchelli («Nella lunga interminabile notte m’è venuto in sogno Renato Sacerdoti il presidentissimo per dirmi: “Furvie’, che fai, tremi? Nun è da te… Da ragazzino non avevi paura de gnente e mo’ da vecchio te cachi sotto. È segno de rincoijonimento sicuro. Svejieate Furvie’, che domani la Lupa passa…”») e probabilmente aveva letto quello che aveva scritto il CUCS perché non un solo oggetto romanista era rimasto a casa. La gente ci è andata col cuore allo stadio.
Ricordo tutto. Il tempo brutto ma Ancelotti che è un sole in mezzo al campo, Conti con la fascia bianca al polso e le discese di Nela, una finita sulla linea di porta loro. Lo zero a zero del primo tempo sembra un contorno. Non frustra, sa di premessa. La promessa viene mantenuta quasi subito, una decina di minuti e Pruzzo si prende la punizione dal limite dell’area, va Agostino. «Oh Agostino, Ago-Ago-Agostino»… non gol perché Schumacher prende pure questa, ma la respinge verso Maurizio Iorio che di testa segna sotto la Sud. Vola, impazzisce, esplode, lui e lo stadio. Adesso siamo pari. Adesso possiamo vincere il Mondiale. Vola, impazzisce, esplode, ma niente al confronto di quello che accade all’88’: angolo dalla sinistra di Conti, palla che arriva verso il cuore di Falcao, stop di petto come solo lui sapeva e poteva fare, un solo rimbalzo, poi tiro-gol e l’urlo più forte di tutti gli Anni Ottanta. La corsa di Falcao sotto la Sud getta un ponte fra quello che c’era prima e tutto quello che sarebbe venuto dopo. Anche lo Scudetto, anche la Coppa dei Campioni dell’anno successivo devono molto a quel Roma-Colonia.
Vigilia, amici miei, era dir poco. Anche per Shakespeare. Non per il CUCS.

(Tratto dal libro “Le 100 partite che hanno fatto la storia della Roma” di Tonino Cagnucci e Massimo Izzi, Ed. Newton Compton)

Ale Ale Roma Alé: la storia

Commentare il coro di sabato sera, il perché, il per come, quanto ci faccia sentire orgogliosi, diversi, quanto definisca la stessa definizione del tifoso romanista (ostentare con vanto i miei colori proprio quando tu t’aspetti il mio capo chino) non mi va. In giro ho letto cose bellissime su quel coro, bastano. Ma il miracolo non è tanto questa specie di miracolo che accade (una specie di valanga che vedi nascere da una palla di neve che hai tirato, la bellezza del paradosso di un coro che trova un equilibrio impossibile perché cresce eppur si mantiene, in una sensazione di essere in un loop di cui però tu sei assoluto artefice anche se centrifugato), ma che questo miracolo nella nostra storia sia addirittura prassi. Ce ne sono stati tanti dal 1927 di momenti così, forse la costituzione stessa di un’Associazione Sportiva che si chiama Roma è figlia di quel sentire, di quel voler farne parte, dell’entusiasmarsi di vivere una storia tutta nostra e di cui siamo innamorati perché ha il nome, i colori e gli stemmi belli. Allo stadio persino gli odori. Quindi scusate dimenticanze o ignoranze (sono sicuro che ci siano tanti romanisti pieni di scrigni di ricordi che potrebbero raccontare storie da farci sentire piccoli). Penso alle lettere sul resoconto del campionato della Roma che arrivavano in ritardo al fronte nell’anno del primo Scudetto e che hanno tenuto in vita tante persone, la trasferta dei mille a Genova nel 1950 (treno prenotato per 955 tifosi la sera prima da Termini) con la Roma ultima a 4 punti e il suo capitano, Tommaso Maestrelli, a ricevere nello spogliatoio il capo-tifoso Memmo Montanari per questo giuramento: «Ti giuro Memmo che moriremo per la Roma». La bellezza di vedere Anna Magnani allo stadio con Masetti allenatore nel tentativo impossibile di evitare la serie B. La stessa storia del Sistina che è stata raccontata quasi sempre senza considerare tutto l’amore che gira attorno alla Roma. È un vortice, è una storia circolare, è una litania, è quel Ale Ale Roma alé… che spesso risuona più alto proprio nei momenti più difficili (oggi si deride quel «la Roma non si discute si ama»: comprendo che dirlo tanto per dirlo dia fastidio, e comprendo pure che invece la Roma si possa, persino si debba criticarla – purché la si ami però – ma tanti si dimenticano che chi l’ha coniata quell’espressione, Renato Rascel, aveva appena saputo che la Roma era andata in Serie B: fidatevi non l’ha fatto per un like o per scrivere sulla bacheca «quando vinci sei di tutti, quando perdi sei solo mia»). Sarà che dai diamanti non nasce niente o che «un uomo si definisce da come reagisce a una sconfitta» che non l’ha detto Kant, Faber, Heidegger o Proust, ma Berlino nell’ultima stagione della Casa di Carta; sarà quel che sarà (o che sarà sarà?) ma per la Roma è sempre stato così. Chiedendo scusa ancora per sintesi o dimenticanze ecco alcuni momenti in cui tutti insieme abbiamo cantato il nostro essere romanista come sabato sera: per un momento, un campionato intero, un attimo, per sempre o una sera.

6 Maggio 1979, Roma-Atalanta 2-2
Penultima di campionato. Il miracolo a Milano la settimana prima contro l’Inter (vittoria per 2-1) aveva rasserenato Roma. La città tutta, dico, ovvio, in questo ultimo anno dei 70. Anche per questo l’intervallo all’Olimpico di quel Roma-Atalanta è stato forse il più lungo della nostra storia, dovevamo davvero uscire dal tunnel: stavamo sotto 2-1, dopo essere passati in vantaggio quasi subito, stavamo con un piede in Serie B. Allo stadio c’erano quasi settantamila spettatori, la Roma era quella della maglia Pouchain, in quella stagione Anzalone aveva fatto l’enorme sforzo di comprare Roberto Pruzzo. A una giornata e mezza dal termine del campionato eravamo sul precipizio, con la prospettiva di andare a giocare l’ultima ad Ascoli, lo scontro fra Atalanta e Vicenza che aiutava fino a un certo punto, mentre il Bologna batteva il Torino. Personalmente ho provato una cosa simile all’intervallo di Foggia-Roma prima del gol di Giannini (un altro momento nostro, dove è letteralmente franato sulle sue ginocchia e dentro le sue lacrime il settore ospiti dello Zaccheria) ma non c’è confronto: mancavano 135′ alla fine del campionato quel giorno. Anzi 118′ quando al 17′ del secondo tempo proprio Roberto Pruzzo, il Bomber, ultimo grande lascito di un presidente dal cuore enorme e dalla capacità di vedere le cose rara come Anzalone, segna sotto la Curva Sud il gol che ci salva tutti. Tutti. Anche a tutti voi che non eravate nati. Perché se dai diamanti non nasce niente, da quel Roma-Atalanta 2-2 del 6 maggio 1979 nasce tutto: la Roma di Viola, di Liedholm e poi di Falcao, la Roma dello Scudetto più solare di sempre, della notte di Coppa e dei Campioni, delle tante coppe Italia, delle maglie belle, bellissime, del calcio morbido, col pallone bianco, dello stadio sempre pieno e pieno di sole pure quando pioveva. Quel giorno c’erano 70.000 spettatori a tifare una Roma con 24 punti e in B all’intervallo per colpa del gol di Prandelli di Roma-Atalanta. A fine partita Agostino Di Bartolomei a Silio Rossi disse: «I nostri tifosi sono stati commoventi, sarebbe ora che offrissimo loro uno spettacolo diverso». Arriverà l’ora Capitano e il tuo spettacolo sarà un esempio. Mentre Anzalone poco più là, stremato, diceva: «Speriamo sia finita». No Presidente, era appena iniziata l’era più bella di sempre. Più bella di sempre.

7 giugno 1984, Roma-Milan 1-1
Aldo Maldera: «Ci penso. Ho giocato più di cinquecento partite da professionista, ho vinto col Milan lo scudetto della stella, con la Roma quello più bello. Ho segnato quasi 40 gol in serie A giocando da difensore in quegli anni, sono stato in Nazionale, ho preso il posto a Schnellinger, ho avuto per compagni Rivera e Falcao, sfidato e battuto Maradona e Platini, avuto i più grandi allenatori, ho vissuto e vivo ancora nel calcio, ma ho un rammarico: quello. Ce l’avrò sempre. Quella partita. Roma-Liverpool finale di Coppa dei Campioni nel nostro stadio, il 30 maggio 1984. Lo sai che c’era una città allo stadio quel giorno? Quella partita è stata la partita più attesa di sempre e io non ho potuto giocarla. Ho giocato più di cinquecento partite, ho tirato tanti rigori, ma non ho giocato quella partita, non ho tirato quel rigore. E poi dopo… Dopo aver perso io ricordo il silenzio e la costernazione della gente, la nostra. Eravamo distrutti. Quella partita ha segnato un destino, l’avessimo vinta sono sicuro che tutti gli anni a venire sarebbero stati diversi per la Roma. Eravamo distrutti. E io ogni volta rivedo quell’ammonizione di Vautrot in semifinale col Dundee… Quella squadra meritava di più, anche se ha incontrato un grandissimo club come il Liverpool. No, non credo che siamo stati sconfitti prima di giocarla, e infatti non l’abbiamo persa, sul campo è finita 1-1. Certo, forse, l’avevamo aspettata troppo. Forse. L’attesa è iniziata un minuto dopo la gara col Dundee, più di un mese prima. Ogni giorno. Ogni attimo. Io non ho potuto giocarla e resterà l’unico rimpianto di una carriera che è stata splendida e fortunata, soprattutto perché ho potuto vestire questa maglia. Quando la indossi capisci che vuol dire, quanto è differente dalle altre e non è retorica. Io non ho mai visto tanto amore nei confronti di una squadra come a Roma. Mi ricordo che dopo il Liverpool dovevamo giocare una partita di Coppa Italia contro il Milan all’Olimpico, quando siamo entrati in campo non credevamo a quello che vedevamo: c’era uno stadio pieno. Pochi giorni prima quella gente aveva perso la Coppa più bella e importante del calcio davanti agli occhi e ai rigori, e non era mai successo prima, eppure adesso stavano lì a cantare per la Roma. Ho i brividi anche adesso al ricordo. Io sono nato a Milano, ho vinto col Milan, sono arrivato tardi a Roma ma ho scelto di restarci per sempre perché non sono più milanese, ma sono romano. E romanista». Per questo l’Olimpico cantava forte: Aldo alé, Aldo Maldera.

20 marzo 1985, Roma-Bayern Monaco 1-2
“Que sera sera (whatever will be, will be”) è un brano scritto trent’anni prima di questa partita per il film (remake) di Hitchcock “L’uomo che sapeva troppo”. Quel giorno, un po’ come sabato, invece noi sapevamo solo di essere della Roma. Non sapevamo altro, non volevamo sapere altro. Altro che mai schiavi del risultato, eravamo liberi da tutto. Quel giorno la pioggia ha fatto veramente da basso continuo a quel canto infinito, nato a un certo momento, senza preavviso, senza concertazione, senza dirsi e sapere niente, tranne quel canto «Che sarà sarà ovunque ti sosterrem, ovunque to seguirem, che sarà sarà». C’è chi dice che fu “solo” una reazione di orgoglio ai tedeschi, c’è chi più poeticamente ha visto in quel canto la fine dell’era più bella di sempre: era il ritorno di un quarto di finale di Coppa Coppe, senza Falcao, dopo lo 0-2 dell’andata. Il tecnico dei tedeschi, Udo Lattek disse: «Io sono rimasto sconvolto da quello che è successo oggi all’Olimpico: in tutta la mia carriera non avevo mai visto una squadra perdere sostenuta così dai suoi tifosi». Il centrocampista Soren Lerby disse: «Lo spettacolo di folla più puro e più vero che io abbia mai visto. Mi hanno commosso e invidio i giocatori della Roma per questo». Come Sebino Nela che non disse niente, ma quando segnò il gol del provvisorio 1-1 si mise a piangere, confondendosi tra quello che succedeva tra curva e cielo per tutto il secondo tempo. Quello che iniziava nella nostra vita.

27 aprile 1986, Como–Roma 1-0
C’è un’immagine di quel giorno, un tifoso della Roma che canta sotto la pioggia a Como: «Siamo i tifosi della Roma, siamo del Commando Ultrà, forza Roma alé alé…». Era stata la colonna sonora di quelle che forse ancora oggi sono le 13 partite più entusiasmanti di sempre della Roma. Quella di Eriksson (pensa te), quella che su 26 punti a disposizione, in quelle 13 gare, ne prese 8 alla Juventus che a dicembre si era laureata campione del mondo e in campionato le aveva vinte tutte. Una rincorsa mai vista, di stadio in stadio, vincendo a Milano col Milan, a Torino col Toro, battendo 3-1 più due rigori sbagliati l’Inter con una squadra piena di ragazzini, vincendo 3-0 e per sempre sulla Juventus con uno stadio colorato per la prima volta nella storia degli stadi tutto dai ragazzi del Commando Ultrà. («Siamo i tifosi della Roma, siamo del Commando Ultrà…»). Battendo la Samp in 10 contro 11, mentre la Juve perdeva a Firenze, ribaltando l’1-2 col Pisa in un 4-2 quando l’Arena Garibaldi sembrava Testaccio nel 1931: avevamo preso la Juve, cantando quella canzone, riempiendo non solo gli stadi, ma ogni giorno di quella rincorsa tricolore. Era il periodo in cui ti commuovevi per la pubblicità della Barilla in televisione. Poi Roma-Lecce e l’assurdo di tutto. Roma-Lecce e la fine di quello che non era più un sogno, ma un tricolore solo da prendere. Ecco, Como-Roma arriva 7 giorni dopo Roma-Lecce: io sinceramente penso che chi è stato a Como quell’anno debba venire considerato come un Cavaliere della Roma. Di quelli veri. Perché non c’era nemmeno più un briciolo di speranza (la Juve avrebbe giocato proprio con il Lecce ultimo e già stra-retrocesso), che aveva già fatto l’impresa delle imprese con noi, noi che dopo quella botta non eravamo vuoti, ma di più: trapassati dal nulla (c’è ancora gente incredula dalle parti dello stadio), eppure la curva del Senigaglia, e non solo quella, era piena dei tifosi della Roma. E quell’immagine poi mostrata alla Domenica Sportiva di un tifoso della Roma che sotto la pioggia cantava a squarciagola. «Una presenza che vale più di uno Scudetto», scrissero. Vero. «La nostra fede non conosce sconfitta» su un altro striscione. Verissimo. Stiamo parlando di questo. «Per la sola ragione del viaggio viaggiare…»: per la sola ragione della Roma amare.

Roma-Liverpool 1-1 (3-5 dcr), 30 maggio 1984
Questa a parte senza cronologia. È solo un inciso. Solo un urlo. Di questa partita è stato scritto e rappresentato tantissimo e sarà sempre nulla. I “55 secondi” non sono solo quelli che passano fra il rigore di Di Bartolomei e l’altro del Liverpool in cui la Roma è campione d’Europa, ma sono quelli – contati al cronometro, più di una volta – passati dal rigore di Kennedy che fa il Liverpool campione d’Europa al canto che a un certo punto si alza in quella notte: «Roma! Roma! Roma!». Sarebbe stato più logico spuntasse davvero un sole. Persino Pizzul in diretta Rai rimase sorpreso. Avevamo perso tutto, tutto. Davanti ai nostri occhi. Sotto le nostre mani. A 11 metri dal cuore, a casa nostra, la coppa più bella e importante, la partita delle partite giocata a casa nostra con la maglietta bianca luce, la Roma stava uscendo dal campo, gli inglesi festeggiavano e dalla Sud dopo 55 secondi di silenzio un canto. «Roma Roma Roma». Per cosa cantavamo? Per chi cantavamo? Non lo so, ma cantavamo per la Roma.

(1 /Continua)

Uscito su “Il Romanista” del 7 dicembre 2021

Sulla nostra pelle

È incredibile come una gioia così pura, come quella di una vittoria importante della Roma con una doppietta di un 18 enne, sia durata meno di una giornata. Neanche si arriva al vivesti un giorno (“come le rose”) di De André. La frase che si sente in quel video ha fatto male: per quello che voleva dire o per quello che non voleva dire, per quello che ha ingenerato, per lo sdegno di chi si è sentito toccato e per le strumentalizzazioni di chi non fa altro. Che si accosti la Roma al razzismo è insopportabile. Che un inciampo o gaffe come è stata chiamata possa ingenerare certi giudizi, fa male ed è insopportabile comunque. Alla fine la Roma una spiegazione l’ha data e la Roma è una società che è in prima linea contro il razzismo senza se e senza ma, questo è alla prova dei fatti. Come che il video è stato postato dallo stesso giocatore (e che poi ha voluto ripostare) e le sue dichiarazioni: «Voglio assicurarvi che non sono offeso dall’audio che avete sentito, che non è a sfondo razzista. Penso che la gente si sia fatta un’idea sbagliata su quello che è successo e su quello che ha sentito. Qui alla Roma mi sento a casa da quando sono arrivato». Meglio così, davvero meglio così, però la prossima volta evitiamo proprio tutto. E non sarà questo il caso, però quando una battuta tocca altre corde, lede altre sensibilità, invade altri campi (che vanno al di là della percezione dello stesso giocatore) secondo me l’unica cosa da fare è sempre mettersi dalla parte di chi davvero sente certe cose sulla sua pelle.

Uscito su “Il Romanista” del 23 novembre 2021

“Mourinho è fatto per Roma”. Intervista a Sandro Piccinini

Se pensi che sono passati 40 anni non ci credi. Ma non tanto per la storia che sembra ieri quando da ragazzini scoprivamo che la Roma potevi sentirla in diretta tv ed era tutto magico, perché in verità quel tempo non sembra ieri, ma un’altra era geologica. Sembra incredibile (e il termine è tutto suo) a vedere Sandro Piccinini perché fisicamente è praticamente uguale: i capelli disegnati con il pennarello, portamento, timbro, piglio sveglio e quella voce che all’alba del monolite degli Anni 80 ci ha raccontato le irruzioni di un sogno tricolore. Altro che epoca dei pionieri, era la nostra epoca da sogno: “In Campo con Roma e Lazio”. E ci sentivamo in campo veramente. È stato il primo in tv a urlare il gol e la rete e a metterci dentro prima ancora che le parole i toni dell’incredibile. Poi è stata quasi tutta un’imitazione e una gara a chi urlava o si caratterizzava di più. Aveva un senso farlo all’epoca, forse oggi andrebbero abbassati toni e decibel. Ai tifosi della Roma (sarà ovvio ma è così) è piaciuta la sua posizione su Mourinho assunta a Sky, ma anche quella a schiena dritta in altre circostanze in un circuito mainstream dove è oggettivamente difficile mantenere il punto. Soprattutto se è il tuo. Più o meno da sempre. Con Mou però è stato facile.

Con Mourinho la tua posizione è stata chiara: per Sandro Piccinini quanto è “ccezionale”?
«Non rispondo per me, bisogna partire dai dati oggettivi: ha vinto 25 trofei, ma soprattutto li ha vinti in condizioni, Paesi e situazioni diverse e non sempre con le squadre più forti. Ha vinto le Champions con Porto e Inter che non sono abituate a vincerle tutti gli anni. Simpatico o antipatico, come tecnico non è in discussione. Ma in questo periodo ne ho sentite di tutti i colori».

Perché?
«Fa parte del vizio, particolarmente italiano, di provare un gusto perverso quando un grande è in difficoltà o sembra in difficoltà. Guarda Cristiano Ronaldo: sono 6 anni che sento dire che è finito, poi fa gol al 92′ in Champions e tutti sono costretti a ingoiare ancora il rospo, salvo che – quando a 40 anni smetterà – gli stessi diranno: “eh te l’avevo detto io che era finito.” ».

Mourinho invece sarebbe bollito.
«Invidie, gelosie. Tutto questo non significa che Mourinho non possa venire criticato. Semplicemente lui, come qualsiasi altro tecnico, dipende dal materiale umano che ha a disposizione. L’allenatore non è un mago come sosteneva Helenio Herrera, ovviamente giocando molto con quel soprannome. L’allenatore può far rendere al massimo quello che ha, ma oggettivamente secondo me la Roma ha 5 squadre davanti come organico: Milan, Inter, Napoli, Juve e Atalanta. La Roma l’anno scorso è arrivata settima a 16 punti dal quarto posto, ha perso Dzeko e Spinazzola. Questa squadra ha diverse lacune tecniche, se non rimedia a gennaio sarà impossibile pensare alla Champions. Nel calcio i miracoli non esistono. Se Guardiola allenasse il Bologna non vincerebbe il campionato, mentre Mihajlovic alla guida del City potrebbe riuscirci. Bisogna essere oggettivi, ma con Mourinho si fa fatica a essere oggettivi».

Il rapporto che ha con i media influenza il giudizio?
«Certo, perché lui non è uno che ammorbidisce i toni anzi spesso li esaspera, però ha sempre un fine, è un grande comunicatore. Mi fa sorridere chi lo critica oggi perché attacca gli arbitri, invece quando era all’Inter e faceva il gesto delle manette tutti lo ritenevano un genio della comunicazione! Oltretutto, poi, dopo fatti oggettivi, perché la Roma onestamente cinque-sei torti grossi li ha subiti. Anzi, ti dirò, Mourinho mi è sembrato anche abbastanza misurato nelle proteste, solo che appena fa una faccia, dice una mezza cosa il giorno dopo ecco i titoloni: “Mourinho furioso”. Eppure ha fatto una battuta o ha detto che è meglio se non parla, quelle robe che sono il minimo sindacale quando hai subito torti anche abbastanza vistosi».

Tu ce l’hai il classico aneddoto con lui?
«No, anche perché io personalmente non lo conosco. La discussione con Di Canio in tv nasceva forse proprio dal fatto che lui pensasse che io ero un grande amico di Mourinho e dovessi difenderlo. Io comunque parlavo di dati oggettivi, non era un’opinione, e non bisogna essere ex giocatori per capire che Mourinho quando è tornato al Chelsea ha fatto una semifinale di Champions League e ha rivinto la Premier, poi è andato al Manchester e ha vinto tre trofei. “Eh sì però dopo è stato esonerato”. Ma l’esonero non è immediatamente sinonimo di fallimento, perché altrimenti tu dovresti considerare fallimentare l’esperienza di Ranieri a Leicester. L’unica delusione a livello di risultati è stata col Tottenham, ma anche lì è arrivato in una squadra che era 14esima e l’ha portata al sesto posto, e il secondo anno a novembre era primo in classifica. Quindi, se vogliamo parlare di declino di Mourinho, dobbiamo parlare degli ultimi 5 mesi al Tottenham. Però a differenza di quello che succede con i calciatori, che a un certo punto declinano per forza di cose, l’allenatore quando è reduce da un risultato deludente non può che migliorare, perché è un’esperienza in più, è una situazione nuova per lui, è una conoscenza in più che aggiunge anche molto al suo bagaglio. Fa ridere sentire dire che è bollito. Per molti anche Ancelotti a Napoli era bollito, poi arriva il Real Madrid e gli fa tre anni di contratto e probabilmente vincerà la Liga quest’anno…».

Mourinho e Roma, che rapporto è?
«Io non avevo dubbi che sarebbe scoppiato un grande amore… Sicuro. Perché lui è uno vero. Lo vedo ancora quando s’incazza dopo un errore, come vive le cose, quanto sarà stato male questa settimana con la sosta di campionato, lui è ancora uno di quelli con l’anima, lui mette passione e nei tifosi della Roma questa cosa è una scintilla… Ecco perché mi arrabbio quando qualcuno dice: “è distaccato, non è più lui”. Ma si vede anche da una qualunque sua espressione in una qualsiasi partita che non è cosi. Lui è Mourinho».

Roma e l’ambiente romano, esiste e se esiste cos’è?
«Quando c’è tanta passione attorno a una squadra ci sono le conseguenze di tutto questo. Mi verrebbe da dire “Le conseguenze dell’amore”, per citare Sorrentino. Troppa passione e troppa delusione, ci si esalta e ci si deprime, si estremizza, perché c’è l’amore. Io dico però che può essere un di più, un benefit più che un handicap purché – attenzione – lo si sappia interpretare bene, cioè che il giocatore e l’allenatore ci mettano lo stesso tipo di trasporto. Mourinho lo fa, ecco perché è fatto per la Roma. E io mi auguro che anche alcuni giocatori lo facciano».

Ecco, come hai visto la gestione della rosa e quelle sue dichiarazioni pubbliche riferite a calciatori poi effettivamente esclusi?
«Premettiamo che io non voglio essere acritico con Mourinho: questo è un problema che hanno tutti i grandi allenatori che hanno vinto tanto. Con le medaglie al collo diventi forse meno tollerante. Un discorso che potrebbe valere adesso anche per Allegri, per esempio. Un allenatore che ha avuto quasi sempre a che fare con campioni e con grandi professionisti, quando incontra qualcuno che non si comporta come tale può essere meno indulgente rispetto al passato e quindi reagire in modo più brusco. Detto questo, dico pure che i giocatori ormai, manovrati anche dai procuratori, sembra che abbiano solo diritti senza ricordarsi di avere pure qualche dovere. Il calciatore deve prendersi le sue responsabilità e se gioca una partita schifosa si potrà pure dire che ha giocato male, si potrà pure metterlo fuori per una, due, tre partite. Basta con l’allenatore ruffiano che dice sempre: “No, i miei ragazzi hanno giocato benissimo, sono io a sbagliare tutto”. Ricordo che Mourinho di screzi con i giocatori ne ha avuti molti, ma quasi sempre ha ricucito, aspettando il momento opportuno per farlo. Certo quando vinci è facile ricucire, sennò è difficile. Lui in genere queste robe le fa anche e soprattutto per suscitare una reazione. Lo fanno i grandi allenatori».

Il tuo grande allenatore ideale.
«Carlo Ancelotti: ha tutte le doti possibili, ha vissuto tutte le situazioni, ha allenato piccole, grandi, si è imposto in paesi diversi, in situazioni diverse: significa che ha dei numeri. E Mourinho lo stesso, e Guardiola lo stesso. Se vuoi tre nomi ti do questi. Posso aggiungere Klopp».

Nella storia.
«Guarda, tatticamente gli allenatori oggi sono molto più preparati di quelli di prima, a parte qualche eccezione come Rinus Michels, la sua grande Olanda, Lobanovsky e la Dinamo Kiev ,che facevano vedere calcio in anticipo di qualche ventennio. O Sacchi. O pochi altri. Trent’anni fa gli allenatori non erano così preparati, molti hanno vissuto glorie esagerate. Prima ho fatto riferimento a Herrera: aveva una squadra pazzesca, passava per esserne l’artefice ma se tu parlavi con i giocatori che ha avuto, nessuno lo avrebbe definito un mago della tattica. L’allenatore mago vero non esiste. Lo stesso Guardiola in Champions ha preso spesso bastonate. Se guardi l’Albo d’Oro degli ultimi trent’anni di Champions League, forse la squadra più scarsa – dico a livello di singoli – era il Porto di Mourinho: a parte Deco non aveva niente di eccezionale».

A proposito di “eccezionale”, il termine della tua semantica che senti più tuo, tra i vari “sciabolata”, “non va”, “mucchio selvaggio”…: c’è una tua cifra stilistica?
«A me questi termini sono utili per fotografare tante cose in una parola. In telecronaca si parla ancora troppo, io sto cercando da un po’ di tempo di essere più essenziale possibile, accompagnare la partita senza sovrastarla. E questi termini aiutano: se io dico “mucchio selvaggio” non ho bisogno di dire “tizio marca Caio, attenzione si forma una marcatura al centro eccetera” … C’è già la seconda voce che fa i commenti, questi termini qui non sono esercizi di stile o di narcisismo, ma per rendere essenziale il racconto».

Piccinini agli esordi televisivi nelle tv romane

La tua telecronaca più bella.
«La finale della Champions 1999 a Barcellona tra Bayern e Manchester United».

La più impegnativa.
«Juve-Milan finale Champions del 2003, era esclusiva Canale 5, noi eravamo la televisione di Fininvest, un po’ di pressioni c’erano…».

Quella che ti sarebbe piaciuto fare.
«Una gara di Valentino Rossi. Nel calcio ho fatto 17 finali di Champions, col Mondiale del 2018 mi sono tolto un grande sfizio. Esperienza bellissima anche se non c’era l’Italia. Anzi ti devo dire, l’Italia al Mondiale, l’Italia all’Europeo… non è troppo nelle mie corde, io non riesco proprio a fare il tifoso, neanche durante le telecronache delle squadre italiane. Ovviamente parteggi un po’, metti un tono più alto se una squadra italiana segna, ma non è nelle mie corde fare l’ultrà in telecronaca».

Però c’è un apprezzamento abbastanza trasversale.
«Alla lunga si capisce che c’è un’onestà di fondo credo, ma spesso prendo anche critiche eh. Fa parte del gioco».

Il gioco, cioè il lavoro del giornalista sportivo, è più difficile nell’epoca social?
«Molto, molto, molto più difficile. Ringrazio Dio di aver vissuto trent’anni di carriera senza social».

Il tuo maestro.
«Il mio modello era Enrico Ameri, grande radiocronista di “Tutto il Calcio…” e provai a portare il suo stile nelle telecronache. Le sue radiocronache erano palpitanti, come tono, come scandiva i nomi, come ritmo. Mi attirava lo stile e mi piaceva trasmetterlo in telecronaca in un periodo in cui invece le telecronache erano sì professionali, ma molto asettiche o noiose».

In Campo con Roma e Lazio.
«È stata storia. Non c’era niente, la gente non riusciva a sapere niente nemmeno dei risultati dei primi tempi … Fu una rivoluzione tremenda: dopo sei mesi ci seguiva mezza Roma».

Rimasi malissimo quando scoprii che non eri della Roma.
«Da bambino ovviamente seguivo la squadra dove giocava mio papà, poi mi appassionai di Sivori prima che smettesse, a quel punto rimasi un po’ così… Poi iniziai a fare il lavoro che faccio adesso».

Da ragazzo il calcio però lo hai giocato.
«Da ragazzo io ho fatto un provino con la Roma di Liedholm, facendomi vivere un giorno da sogno. Avevo perso mio papà a 14 anni, mia mamma, siccome sapeva che il Barone aveva giocato con lui nel Milan, mandò una lettera a Nils che – forse intenerito – mi invitò al Tre Fontane. Feci questo allenamento con la prima squadra, a fine seduta ero contentissimo perché avevo giocato bene, avevo fatto gol, avrò avuto quasi 16 anni e tante speranze in testa, soprattutto in quel momento. Faccio la doccia e arriva Liedholm che mi dice: “Sandro come vai a scuola?”; risposi: “Benissimo”, pensando di guadagnare punti ai suoi occhi, lui però mi disse: “Ecco, continua studiare, se tu studi fai bella vita, il calcio è per pochi”. Poi mia mamma organizzò un provino con la Lazio che superai, soltanto che dopo pochi mesi di allenamento mi accorsi che c’era gente fortissima, dei fenomeni e io ero bravo tecnicamente ma troppo gracile. Nei primi Anni 70 cominciava a esserci un calcio atletico, sai cogli olandesi… Capivo che mi avrebbero mandato a Latina in Serie C, avrei dovuto fare 4 allenamenti a settimana, io studiavo, allora a un certo punto ho mollato».

Poi è andata bene.
«Sì diciamo che mi sono riciclato nel calcio (ride, ndi)…».

Il giornalismo sportivo oggi.
«Troppo commerciale, troppo attento alla resa immediata, al titolo ad effetto per catturare e vendere l’attenzione. C’è meno voglia di raccontare cose più interessanti, si va dietro il grande nome, la polemica, il gestaccio… Che per carità fa parte del gioco e fa parte del mondo del calcio e del giornalismo, però non dev’essere solo questo. Se tu guardi i grandi giornali alla fine l’80% è gossip, la notizia roboante esagerata, così alla fine si droga un po’ tutto. Si è persa la voglia di individuare le cose originali, di andare un po’ più a fondo, di lavorare su storie alternative. A me piacciono moltissimo le interviste, sono le poche cose belle che leggo sui giornali. Se qualcuno ha qualcosa di interessante da raccontare non ho bisogno del titolone o della telenovela di Icardi e Wanda Nara… Mi pare si stia un po’ esagerando. E mi pare una via senza ritorno».

Con Di Canio hai più parlato di Mourinho?
«Non ci siamo più sentiti, questo mi ha un po’ dispiaciuto. Ha detto un paio di cose, insomma, un po’ stonate. Mi sarebbe piaciuto che avesse avuto voglia di un chiarimento. Pazienza. Non succede niente, lo conosco da 30 anni, cominciò a fare tv proprio a Controcampo, ma mi è dispiaciuto».

Certo non come quel giorno al Tre Fontane.
«Sono cose diverse. Quel giorno ho vissuto un giorno da sogno».
In campo con Roma e Lazio veramente.

Uscito su “Il Romanista” del 17 novembre 2021

Ed unità per noi

Non bisogna dare tempo alla Roma e nemmeno a Mourinho: bisogna darlo a noi stessi. Se noi non avessimo paura quando la Roma perde di fare i conti innanzitutto non con laziali, juventini, milanisti, gli avversari di turno, eccetera, ma dei romanisti stessi che t’avevano detto il contrario di quello che tu sostenevi oppure viceversa, cioè se quando vinciamo invece di godere della Roma che ha vinto e basta cominciamo a tirar fuori i sassolini (che poi so’ serci a Roma) e a dire «hai visto c’avevo ragione io», sarebbe tutto meglio: meglio per la Roma. Ci vuole tempo, ci vuole una visione, ci vuole quella sensazione di tornare a essere un corpo unico. E in questo discorso Mourinho ci è utile, a noi e alla Roma, non alla venerazione di un allenatore. Mourinho già col suo acquisto ha fatto ‘sta cosa. Parlare di spaccatura della tifoseria su di lui non sembra raccontare una verità assoluta, anzi, è il contrario, almeno a livello di stadio. Magari sui social è diverso, ma la differenza si conosce: De Rossi in 20 anni di carriera romanista non si è preso nemmeno un fischio dalla Sud e dallo stadio, anche quando ha sbagliato (ma ha mai sbagliato?) e mentre sui social era una cambogia di Capitan Ceres e sgarri in faccia e all’intelligenza di chi ci credeva, all’Olimpico c’erano striscioni per lui. In Roma-Milan c’è stato un doppio furto, uno fatto vedere pure bene sul tabellone: allo stadio la risposta è stata chiara, sdegnata e senza fischi al fianco della Roma, mentre contemporaneamente sulle piattaforme di Copertino, era il solito fiume rancoroso e telavevodettista (che poi io mi chiedo: ma quando la Roma perde non ve viene de sta zitti e basta?).

Mourinho prima che essere un tecnico che ha insegnato calcio e vinto 25 titoli è un valore emozionale, psicologico non solo per i giocatori, ma anche per i tifosi ed è quello che è un peccato sprecare. È assurdo mettere in discussione Mourinho adesso, non tanto perché tecnicamente sono appena tre mesi e mezzo che sta qui (e pure se ritornasse Carlos Bianchi – lo so, è un esempio limite – dovresti dargli più di tre mesi di tempo), e non solo perché è stato chiaro, onesto, lineare dal 2 luglio, dicendo sempre che ci vuole tempo, e non solo perché visto che la colpa è sempre stata esclusivamente di ogni allenatore allora forse stavolta è il caso di cambiare atteggiamento (visto anche il profilo del tecnico in questione), ma perché ancora oggi, malgrado lo schifo di Bodo, che è un dolore di cui anche lui è responsabile, anzi forse è il primo responsabile, malgrado la classifica che è addirittura peggiorativa rispetto all’anno scorso, la gran parte dei tifosi della Roma sente la necessità di preservare questo tecnico un po’ come un dovere, come una necessità, un po’ come un simbolo: la voglia di avere un riferimento importante, e – perché no? – prestigioso (vi ricordate che i tg di mezzo mondo per una settimana dal 4 maggio hanno parlato di Mourinho alla Roma?). Il fatto che lui abbia scelto la Roma, che lui abbia deciso di legare il suo nome a quello infinitamente più grande che è il nostro, giocandosi tutto, ha un valore e fa piacere: io non mi sento più piccolo se Mourinho viene alla Roma, ma più grande perché lui ha scelto noi. Diventa quasi automaticamente un punto fermo, soprattutto se le cose vanno male come adesso. Mourinho è stato un elemento che ha unito i tifosi, non divisivo come stanno cercando di farlo passare o diventare. È un po’ questo l’atteggiamento che negli anni ci è mancato, anche quando la Roma (checché se ne sia detto strumentalmente contro) è stata forte e fortissima, arrivando per cinque stagioni fra il 2014 e il 2018 cinque volte sul podio, facendo un paio di record di punti della propria storia (85 e 87), record di vittorie iniziali consecutive (10), record di vittorie in trasferta consecutive in serie A (12), è sempre mancato questo: l’afflato, l’unione, il collante, una stessa visione. Non è romanticismo, è che senza la sua gente la Roma non vince. Se adesso questa voglia c’è (anche strumentalmente da parte di qualcuno solo per contrasto a ciò che c’era prima), va bene, va benissimo: quello che interessa, in questo senso e sempre, è la Roma. La Roma è ovvio che conti più di qualsiasi cosa. Conta più di Falcao, di Totti, di De Rossi, di Di Bartolomei, di Rocca e di Bruno Conti e infinitamente di più di tutti loro messi insieme, pensa se non conta più di Mourinho (ciò che è sbagliato è vedere una contrapposizione dove c’è la stessa barricata).

Il valore che incarna anche inconsapevolmente Mourinho, che viaggia anche sopra la sua testa, è proprio questa sensazioni di risentirsi uniti, di risentirsi noi, semplicemente di ri-sentirsi. Perché se io perdo a Venezia a mezzogiorno e mezza una partita che mi fa male citare pure adesso, e mi rimpone non solo una domenica horror ma anche le prossime due settimane, ma c’avessi tutti che fanno fronte comune, tutto sarebbe molto più sopportabile. Quando io guardo quello striscione della Sud esposto al Penzo è un balsamo, quando dopo una partita ingiustamente persa vedo il mio allenatore e la mia squadra venire verso di me e fare gruppo fra di loro e con noi, fa meno male. Non sparisce il dolore ma si trasforma nell’unica cosa possibile da fare quando perdi: reagire e ricominciare su basi nuove, con quella cosa che ti ha unito e fatto da collante nel momento più brutto, che diventerà la cosa che può farti vincere. E basta co’ sta storia degli alibi perché l’hanno messa in giro gli altri, come le divisioni fra poveri fatte da chi governa. Lo dicevano pure di Calciopoli che «invece de piagne devi pensa’ a cresce». Avoja. Nella crescita c’è anche la capacità di dire di no e di ribellarsi, non solo quello di diventare un super-maestro-zen della vita e di fare sempre la cosa giusta secondo Freud e Jung messi insieme. Io non solo ho il diritto, ma persino il dovere di non accettare le cose che non sono giuste. Anche questo significa crescere. E se è vero che la Roma non è forte, che ha dei limiti, che non ha equilibrio, che non ha giocatori, che non ha una rosa, che pure l’allenatore non è all’altezza, ma allora proprio perché è vero questo, io prima di prendermela con la Roma la difendo.

Se io ho un figlio brillante, centrato, bello, puntuale e pronto, è ovvio che da lui possa pretendere certe cose, ma se c’ho un ragazzino che ha qualche difficoltà e si impegna e stavolta aveva pure studiato (tipo stava a vince 2-1, giocava bene e non rischiava niente) ma il professore l’accusa d’aver copiato, e magari è la quinta volta consecutiva che gli va male, io m’arrabbio, ma non con lui. Sto con lui con tutto me stesso. Quello che sta succedendo alla Roma non è esattamente normale, nemmeno in una casistica tipica di torti arbitrali e nemmeno in una nostra casistica di questo tipo che è sempre stata particolarmente ricca, sono cose paragonabili al 2002/2003 e al 1998/99: in 5 partite quasi consecutive una decina di episodi giganteschi, chiari, netti. Giù le mani della Roma. E dalla decenza. Perché è insopportabile che fino a quando Gianluca Mancini non si è presentato alle 23.40 in tv a dire in faccia a conduttori e opinionisti che quel rigore dato al Milan faceva ridere, in nessuna moviola se n’era mai parlato, in nessun club esclusivo o privé, con o senza giacca, si era detto niente di niente (poi quando glielo dici, bene che va “zagajano“); non è giusto che l’esultanza provocatoria di Ibrahimovic non venga nemmeno nominata da chi la dovrebbe raccontare, ma poi quella di Calhanoglu diventa immediatamente un tema; è quasi comico che adesso si facciano le tabelle per far vedere com’era meglio la Roma di Fonseca dalle stesse televisioni che l’anno scorso nel post partita lo bullizzavano perché colpevole (oltre che di essere un bravo allenatore) anche di essere elegante, mite e garbato nei toni; ed è poco accettabile che i giornali scrivano – come è successo l’altro ieri -: «Mou ha dato la colpa dei flop all’arbitro titillando le corde della tifoseria più sempliciotta». 

A questo loro “titillare” dire no, perché se tutti questi trovassero un blocco unico e compatto, non si permetterebbero più certe cose sulla Roma: in campo e fuori. Che il resto d’Italia abbia confezionato la storia di Mourinho bollito significa solo una cosa: rosica. E scaricare almeno oggi (io spero mai) Mourinho, dà a tutti loro solo una grandissima soddisfazione. E noi non gliela dobbiamo dare mai, nemmeno se perdiamo col Venezia, nemmeno se non vinciamo, nemmeno se è ancora lunga e dura. Mou è la loro invidia. Noi siamo romanisti. Loro no. E se noi adesso siamo noi, cioè consapevoli della squadra, del momento, di una società che è nuova e sta investendo, della rosa non all’altezza… staremmo tutti meglio, a cominciare dalla Roma : il nemico (sportivo, s’intende) non dev’essere un romanista. A Roma da troppo tempo è così, da troppo tempo il nemico per i romanisti sono altri romanisti: i sensiani contro i pallottiani contro i friedkiani, i fonsechiani, i mourinhani, i pivottiani… da troppo tempo è così. Forse è da quando non vinciamo.

Torniamo a essere noi stessi, cioè della Roma, romanisti. Senti che bella espressione: “essere della Roma” è tipo la parola mamma per un bambino. Appartenerle. Essere romanisti è già di per sé una rivoluzione, è già di per sé essere critici, già ritrovarsi mezzo mondo contro e stare costantemente all’opposizione (visto che fa fico blastare i sentimenti e dimostrarsi sempre corrosivi nei giudizi, salvo scoprire di dire le stesse cose che Luciano Moggi ha scritto su Libero e praticamente tutti i media nazionalpopolari hanno detto contro la Roma). Noi da sempre abbiamo tutti contro: il potere, il palazzo, il condominio, il Nord, la Fiat, le televisioni analogiche, digitali, a pagamento, a gratis, on demand, senza risposte, taroccate, pirata, in bianco e nero, colorate, sbiadite, laziali, juventini, interisti, milanisti, strisciati di tutta Italia e di mezzo mondo uniti, il triangolo industriale e quello delle Bermuda, il folklore del Sud e il vento gelido del Nord… facciamo i romanisti. Facciamo noi stessi. Parafrasando Dostoevskij e prendendo in prestito l’amico Giuseppe Manfridi: «Io sono solo, loro sono tutti». «Noi siamo soli, loro sono tutti». Ma noi siamo della Roma.

Uscito su “Il Romanista” del 10 novembre 2021

Tapparelle

Traditi, con la foto dei tifosi a Bodø. La Prima di ieri è stata questa perché non te l’aspettavi da questa Roma e da quest’allenatore sconfitte così. Uno degli auspici profondi dell’arrivo di Mouriho era (è) proprio questo: partite simili non capitano, puoi perdere ma ci lasci tutto insieme ai punti in campo. E poi proprio in Conference, cioè in quello che quest’anno dovrebbe essere l’obiettivo per poter tornare a vincere, in quelle competizioni che piacciono persino di più a certi tifosi, che ti fanno andare apposta in 400 di giovedì al Circolo Polare perché è un immenso orgoglio già il solo esserci. 6-1 col Bodø non ha bisogno di nessun editoriale e se sei romanista, a meno che non devi fare per forza un pezzo per il tuo giornale, te ne stai a casa, non senti niente e nessuno, aspetti che il sonno arrivi per stanchezza, tapparelle abbassate e come ogni volta, purtroppo, dopo queste volte qui, rimandi tutto a domani.

Invece oggi ti trovi pure con le dichiarazioni di Mourinho che per tanti sono state peggio della sconfitta stessa: io sinceramente sto ancora abbastanza a pezzi per il risultato però ammetto che anche a me hanno fatto pensare: ma come, un allenatore che ha fatto della comunicazione quasi il suo stile, un tecnico che ha fatto della motivazione, della psicologia, del fare gruppo ed essere squadra-casa-famiglia un marchio, perché dice così? Però forse nella domanda c’è già la risposta: ma secondo voi Mourinho non sa quello che fa e perché lo fa? Io voglio sperare e credere di sì, proprio perché è lui. Avrà-ha sbagliato tutto prima, durante e forse dopo la partita, ma io continuo a vedere in Mourinho un valore assoluto e la pietra miliare del progetto dei Friedkin e non so quanto sia utile dirgli di più oltre al fatto che è stato il primo responsabile per Bodø. Dal primo giorno ha chiesto tempo e ha parlato di progetto, credo che non solo gliene vada dato, ma che debba essergliene dato. E spero non solo per i prossimi tre anni. La Roma 8 partite di campionato fa è arrivata a 16 punti dal 4° posto settima a pari merito col Sassuolo solo per differenza reti, noi partiamo da lì.

Purtroppo proprio l’entità e il modo della sconfitta (che ancor c’offende eccome) fanno sì che per la prima volta dal suo annuncio quel friccicorio, quella specie di sensazione di unità ritrovata è venuta meno. Quando la Roma perde ci sono più sciacalli e iene ridens che lupi. E devi stare attento a cosa dire, ingoiarti perfino un Forza Roma che avresti già voglia di strillare in faccia a ‘sto dolore sportivo e a chi ne gode, perché ben che va sarebbe divisivo, creerebbe fazioni. Eppure al di là del torto o della ragione c’è la Roma e la voglia di andare allo stadio già adesso contro il Napoli, il Milan o il Bodø. Al di là di tutto ci sono i tifosi. Più di qualcuno ha detto o scritto che andrebbero rimborsati, in redazione avevamo pensato anche a un titolo simile: “Rimborsateli” piuttosto che “Traditi”. Oddio, non che il gesto in sé – in quanto fatto verso la gente – sia deprecabile, anzi, ma casomai lo faccia la Roma senza che nessuno lo chieda. Personalmente non ho mai ritenuto il tifoso un cliente, tantomeno chi va giovedì sera al Circolo Polare a vedere la Roma col Bodo in Conference. La Roma non è una questione di soldi, di dare e avere, la Roma è la storia di un amore incondizionato. La notte norvegese più di qualsiasi altro episodio racconta questo. Una medaglia, non un rimborso: risarciteli sul campo i tifosi. Per chiudere verrebbe da di’ Forza Roma ma almeno fino a domani alle 18 non se po fa. Tapparelle.

Uscito su “Il Romanista” del 23 ottobre 2021

Il tapiro del Var postumo alla Roma

Pochi punti chiari: 1) il gol della Juve andava annullato per il fallo di mano di Cuadrado; 2) Orsato avrebbe dovuto concedere la regola del vantaggio per regolamento; 3) la giustificazione che l’arbitro dà a Cristante è grave perché sbagliata; 4) il rigore di Veretout andava ripetuto perché Chiellini entra in area prima del tiro anticipando poi Mancini sulla respinta del portiere; 5) i 3′ di recupero sono pochi; 6) tutti i precedenti 5 punti sono evidenti, non negoziabili, apodittici e nemmeno gravi come un altro punto, che mi sembra il punto: una specie di meta-Var a cui è stata sottoposta la Roma sia domenica sera, sia dopo il derby.

Un non richiesto supplemento “critico” che almeno si spaccia per tale. Una moviola fantasma. Così come tutti i 5 punti di cui sopra, anche il triplo fallo di Hysaj su Zaniolo (trattenuta, spinta e contatto col piede) era chiaro ed evidente (persino ai commentatori di Dazn che nell’intervallo si sono “ravveduti”) ma per confutare l’inconfutabile ecco spuntare l’episodio postumo, la vivisezione in differita, la meta-Var: il fuorigioco di Zaniolo. Che nessuno aveva visto, che nemmeno nessuno aveva presunto, che nessuno ha verificato, che nessuno ha contemplato in diretta (tv e campo) e che pure è diventato il grosso “ma”, la giustificazione per dire «sì ok il fallo c’era ma era fuorigioco». A Torino il corrispettivo del fuorigioco del derby è stato il presunto fallo di mano di Mkhitaryan. La questione non è tanto l’evidenza del tocco di spalla di Locatelli sulla carambola, così come che avvenga in caduta e dopo il fallo di Szczesny, e la chiara involontarietà, ma, appunto, che né in campo, né in tv nessuno abbia minimamente pensato, intravisto, intuito, il presunto fallo, nemmeno Orsato! Così come il fuorigioco del derby è una sottolineatura, un episodio emerso dopo, rintracciato, scovato col lanternino, almeno una mezzoretta dopo la partita per dire «ok il gol forse andava dato, ma c’è un fallo di mano e quindi non vale». Un Tapiro. Una prova fabbricata. E in entrambi i casi con un buon esercito di commentatori pronto a suffragare e a diffondere la tesi. Cioè il fallo di mano di Cuadrado non è stato fatto rivedere nemmeno mezza volta, una cosa invece che resta presunta e che nessuno aveva visto diventa la Grande Spiegazione.

Io credo che quello spazio che va dalla partita alla sua archiviazione negli annali, nelle tv e nei giornali, che è fatto necessariamente di chiacchiere, speculazioni, ricostruzioni, possibili strumentalizzazioni, ci sia perché chi lo occupa si sente legittimato a farlo non solo dai cosiddetti poteri forti, ma anche perché non avverte alcuna forma di resistenza. Se la Roma quando accadono queste cose, e anche prima, venisse difesa senza se e senza ma, io credo che quello spazio si assottiglierebbe. Detto in altri termini: se siamo noi i primi a parlare male della Roma anche quando non se lo merita (ma se lo merita mai?) come puoi pretendere che chi non la ama (se va bene) possa “risparmiarla”? Il fatto grave è che l’altro ieri Allegri, Barzagli e Lapo Elkann (!) hanno detto che non meritavamo di perdere. Non po’ esse che lo dicono “loro” e fosse anche uno di “noi” no. Diventiamo quello che eravamo: uniti, innamorati, invidiati per il sentimento e non per la “portata critica”, torniamo alle basi, al punto 0, al nostro meridiano di Greenwich dell’anima, al Forza Roma che accetta solo un commento: sempre.

Uscito su “Il Romanista” del 19 ottobre 2021

Zaniolo, il nostro (ri)sentimento

Allora, pensate se vostro figlio riuscisse a realizzare un sogno, o se voi riusciste a realizzare un sogno. Magari anche quello sputtanato ma sicuramente spudorato di fare il calciatore. Che a 19 anni esordisca in Europa al Bernabeu contro il Real Madrid. Poi giochi con la Roma e corra, voli e segni. Ma non gol facili, né normali, segni correndo, volando, arrestandosi in controtempo, spiazzando, con uno scavetto (Sassuolo) oppure con l’aratro (Torino) se finisce a terra. E poi le notti di coppe e di Campioni e diventi il primo calciatore a quell’età, che è l’età dei sogni di tutti ma per lui quella della realtà di un sogno, a segnare una doppietta in Champions League. Sotto la Sud. Col Porto. Ancora senza vessillo. E poi altri scatti, altri scorci, tutta la freschezza del mondo e le promesse che non sembrano aver bisogno di particolari giuramenti per essere mantenute. Poi in una partita di inizio anno, in un lampo, in una delle discese ardite non ci sono più risalite, ma un crac. Stok. Uno strappo. Qualcosa che salta. Un legamento. Un crociato. L’ala diventa qualcosa da trascinare e da operare. I sogni puzzano di anestesia. I sogni che erano già realizzati tornano tutti nuovamente e maledettamente da realizzare. Macché sogni, anzi: qui l’importante è appena tornare a giocare.

Mentre Roma ti accarezza il ginocchio. E hai poco più di 20 anni ancora: torni. Riassapori tutto. Risenti l’odore dell’erba e la freschezza del vento. Corri. Fai un gol che sembra l’azione perfetta speculare ma opposta di quella in cui tu hai lasciato un ginocchio. Contro la Spal. È estate. Era inverno quando ti eri fatto male. Ora senti il profumo delle sere, ritorni a volare. Il freddo è passato. Ecco, tutta questa è già una grande storia, però non è finita: immaginate che dopo tutto questo a voi, a vostro figlio, a un amico, a Nicolò Zaniolo, giocatore che conosce il vento, calciatore punk con lo schiaffo dell’arte tra i piedi, capace di tutto, succeda di rifarsi male. Rifarsi lo stesso male. No. Stai dicendo «è troppo» pure se già lo sai che è veramente (ri)successo. Rompersi un’altra volta il ginocchio, stavolta quell’altro, il sinistro: è pesante già solo immaginarlo. Pensate che ha pensato, provate a provare che ha provato, dover ricominciare per la seconda volta quello che già la prima sembrava impossibile aver ricominciato. Pensate adesso che qualcuno gli sta dicendo indegno di giocare con la Nazionale la semifinale (e forse la finale) di Nations League dopo tutto questo e senza un piccolo particolare: sapete a chi, dove, quando ha lasciato il suo crociato Nicolò Zaniolo? All’Italia in Nations League. Olanda-Italia di Nations League. Oggi l’Italia gioca la Nations League.

Bocca di rosa al confronto godeva di una buona stampa, e aveva meno gente a darle buoni consigli una volta impossibilitati a dare il cattivo esempio (tipo qualche dito medio datato del ct e di qualche altro giocatore qua e là di stretta attualità). Anche meno comari del paesino dei giornali che ti bacchettano (col loro malcelato fastidio che sembra dirti cambia testa, e cambia pure squadra), ma che non scrivono una parola sulle Tv che paghi e non si vedono, sulle multiproprietà, sulla Figc che aspetta ancora l’esame di Filologia Romanza di Suarez, sui protocolli Covid e su quelli del Var come, quando e con chi funzionano, sugli arbitri che in Italia non si possono nemmeno minimamente discutere mentre quelli internazionali diventano subito in malafede se fischiano un rigore contro le italiane.

Zaniolo ha dato alla Nazionale e alla Nations League un ginocchio. Un crociato e quei sogni e tutte le sue paure e tutte quelle 50 righe che avete letto prima. È stato fuori 11 mesi. Io non spero in una sua impossibile convocazione perché personalmente già penso a Torino e pure al Bodo, però sarebbe da pretenderla visto quanto ha dato Nicolò per questa maglia in questa competizione. Sarebbe da pretenderla soltanto perché poi lui possa dire ancora una volta e ancor più nettamente «no» per un risentimento muscolare. E io spero sia proprio solo il muscolo del cuore.

Uscito su “Il Romanista” del 6 ottobre 2021

Angeli, no, di più: uomini

Kasper Schmeichel, Daniel Wass, Simon Kjaer, Andreas Christensen, Joakim Maehle, Pierre Emile Hojbjerg, Thomas Delaney, Yussuf Poulsen, Jonas Wind, Martin Braithwaite. E Christian Eriksen. Da ieri, nomi che andrebbero imparati a memoria come le grandi formazioni del nostro calcio.
Attorno a lui sembravano uno stuolo d’angeli, invece erano “solo” una squadra. Quell’immagine ha una valore enorme: racconta l’umanità. La nostra condizione di caducità, la nostra estrema fragilità e il compito di farne qualcosa di esemplare, di vero. Persino di eterno. Qualcosa come la Ginestra di Leopardi, quel fiore che nasce sulle pendici di un vulcano e sboccia malgrado il deserto e malgrado sfiorirà presto.

Un gruppo di ragazzi che si mettono attorno a un loro compagno, un ragazzo come loro, a fargli scudo. Hanno fatto scudo alla morte. L’umanità contro la fine. La speranza disperata, la fragilità che però si erge sul ciglio su quel limite che si attraversa una volta sola e poi non più. Si sono messi lì naturalmente, spontaneamente, rigidamente, come a proteggere Christian, come a dirgli ci siamo, come a fermare tutto quello che stava accadendo e che purtroppo pareva ineluttabile, come a non saper far altro, come a non poter far altro: era insieme così clamorosamente tenero e inutile eppure assolutamente la cosa più forte, commovente, giusta, santa da fare.

Hanno detto no alla spettacolarizzazione del dolore, perché certe immagini devono restare un tabù, anche perché è attraverso le loro facce, le loro lacrime (Delaney inconsolabile, Christensen a difendere anche il suo pudore mentre difendeva il pudore di Eriksen) la loro disperazione, i loro silenzi, le loro preghiere a qualsiasi dio, che noi abbiamo visto molto di più di quanto qualsiasi telecamera avrebbe mai potuto mostrarci. La speranza e la disperazione, l’angoscia e l’amore. Ecco perché le polemiche sul fatto che abbiano ripreso a giocare non hanno senso se è vero (ovvio che questa sia la condizione fondamentale) che sono stati loro a volerlo. Loro hanno letteralmente visto la morte in faccia, non per modo di dire, ne avranno avuto il diritto no di tornare alla vita?

Kjaer cazzo, soprattuto Kjaer che è intervenuto subito sul compagno, che si è messo lì di schiena al mondo a guardarlo mentre inerme lottava. Senza distogliere mai lo sguardo. Kjaer e Schmeichel, il portiere, che era quello che riusciva a stare meno fermo, lo guardava e guardava fuori. Lui e Kjaer sono andati ad abbracciare l’amore di Christian. Chi ha fatto questo se ha deciso di rigiocare va rispettato, anzi, va ascoltato. Si parla di esempi, eccoli. Siamo stati felici tutti noi davanti alla tv quando abbiamo saputo che Eriksen era vivo. A un certo punto pareva impossibile. Siamo rinati un po’ anche noi. Pensa loro. Pensa lui.

Quando si dice che il calcio è vita si dice quello che la Danimarca ha fatto ieri. Si dice, e per tutti oggi la vita ha ancora il nome di Christian Eriksen. Attorno a lui sembravano uno stuolo d’angeli, invece erano qualcosa di più: uomini.

Uscito su “Il Romanista” del 13 giugno 2021